Piergiorgio Welby, Eluana Englaro, Dj Fabo, Patrizia Cocco, Samantha D’Incà. Alcune di queste persone sono più o meno riconoscibili agli onori delle cronache. Alcune per le loro battaglie. Altre per essere diventate dei simboli. Altre per entrambe le cose. Denominatore comune di tutte queste persone è la volontà di esercitare il proprio diritto a ricorrere al suicidio assistito in Italia. Una pratica non normata dal nostro ordinamento. Una pratica che ha sempre diviso il Paese. Sia tra i cittadini che tra i rappresentanti eletti in Parlamento. E proprio per questo non è mai stata affrontata dal legislatore.

Il tema del suicidio assistito continuerà a dividere il Paese. Nei prossimi giorni e nelle prossime settimane ancora di più. In maniera aperta, sui giornali, al bar, nelle piazze, nelle sedi di partito. Gioco forza anche in Parlamento. Accadrà – e sta accadendo – a seguito della decisione dell’Asl delle Marche di autorizzare il suicidio assistito di un paziente 43enne. Marchigiano, tetraplegico, immobilizzato a letto da dieci anni ha vinto la sua più dura battaglia. Quest’uomo potrà morire nel suo Paese. Il Comitato Etico ha riscontrato i requisiti delle condizioni stabilite nel 2019 dalla Corte Costituzionale nel caso di Dj Fabo e Cappato per l’accesso al suicidio assistito. Si tratta del primo caso in Italia.

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Il parere è arrivato dopo circa un anno dall’inizio dell’iter giudiziario. Anche il ministro della Salute Roberto Speranza aveva appoggiato la scelta. Ora gli avvocati del 43enne e l’associazione Luca Coscioni, che lo ha accompagnato in questa battaglia, dovranno chiedere all’Azienda sanitaria unica regionale delle Marche di definire le modalità di auto somministrazione del farmaco letale.

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