L’inquinamento da Pfas non è solo in Veneto

L’inquinamento da Pfas non è solo in Veneto

L’intervista al deputato del M5S in commissione Ambiente e commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti (Ecomafie) Alberto Zolezzi

Albicocche, uova di galline, fegato di suino, di vitello, capra. E ancora pomodori, cavoli e lattuga. Un paio di settimane fa questi alimenti coltivati nelle province di Vicenza, Padova e Verona sono saltati agli onori delle cronache per inquinamento da Pfas. Di cosa si tratta e quali altri prodotti e territori corrono il rischio di essere inquinati da queste sostanze lo abbiamo chiesto al deputato del M5S in commissione Ambiente e commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti (Ecomafie), Alberto Zolezzi.

Dopo quattro anni di continue richieste da parte della popolazione che vive nelle aree del Veneto contaminate da Pfas sono stati resi noti i dati. Che quadro si legge? 
«Il quadro è senza dubbio allarmante, a maggior ragione se consideriamo che l’esecuzione delle analisi è stata a dir poco lacunosa. Alcuni prodotti non sono stati campionati tenendo conto della possibile filiera complessa, di possibili fasi produttive non legate alla zona rossa o della eventuale mescolanza di prodotti di diversa provenienza, come le uve da vino ad esempio. Per decenni la popolazione di mezzo Veneto ha bevuto acqua contaminata e si è trovata valori di Pfas nel sangue molto elevati e ora emerge che una parte dell’esposizione era dovuta agli alimenti. E per i lavoratori e per i cittadini che abitano nei pressi degli impianti produttivi come la Miteni di Trissino o di rigenerazione dei filtri (Legnago e altri) esiste anche l’esposizione per via aerea. Quindi siamo davanti a un’invasione di Pfas nella zona rossa e non solo. Secondo i recenti rilievi di Efsa per un adulto bastano 264 nanogrammi di Pfas negli alimenti per superare la soglia settimanale: la contaminazione da Pfas in Veneto rappresenta una grande fonte di rischio per la salute dei cittadini, ma anche per l’immagine e l’economia di quei territori. Ad aggravare la situazione ci si è messa poi la scarsa trasparenza della Regione Veneto e di altri enti che hanno rifiutato per anni di pubblicare i dati relativi al 2016 e 2017. E chissà ora com’è la situazione con la Miteni che continua a rilasciare veleni vecchi e nuovi».  

Di che genere di alimenti si tratta e quanto il grado di inquinamento insiste sulla quotidianità della popolazione esposta?
«Nel caso delle albicocche sono stati rinvenuti 5 campioni positivi su 9: da 600 a 3.500 nanogrammi per chilogrammo (ng/kg) di prodotto. Basta mezzo chilo di albicocche per superare i limiti di sicurezza. Le uova di galline sono risultate positive in 53 campioni su 68: dai 100 a 37.100 ng/kg. Lo stesso vale per fegato di suino (15 campioni positivi su 26, da 100 a 36.800 ng/kg), fegato di vitello (65 campioni su 80 da 100 a 5.500ng/kg) e capra (3 su 3 positivi tra i 1.090 e i 18.600 ng/kg). I Pfas si legano alle proteine e questo spiega le concentrazioni più elevate negli alimenti di origine animale, ma sono stati riscontrati anche in pomodori, cavoli e lattuga. Nelle audizioni in Commissione Ecomafie, fin dal 2014, mi aveva colpito la paura di cittadini e agricoltori per i pericoli legati all’acqua e ai prodotti della propria terra. Una situazione davvero da film horror. Confermata da questi dati che offrono una quantificazione del danno. Non è possibile non nutrirsi e questi dati spingono a non comprare prodotti locali e li rendono meno attrattivi anche per l’export. Situazioni che impattano pesantemente sulla qualità di vita di cittadini e imprese agricole».    

Le province di Vicenza, Padova e Verona sono le più esposte. Quei cittadini devono preoccuparsi? 
«Gli studi epidemiologici, per quanto rallentati da regione Veneto (mi riferisco allo studio di coorte residenziale su cui Iss ha riferito alla Commissione ecomafie lo stop della collaborazione regionale nel 2019), mostrano che  nella zona rossa c’è il 21% in più di decessi per ictus cerebrale o eventi cardiovascolari rispetto al resto della popolazione veneta, ci sono importanti segnalazioni di endometriosi o infertilità, di gravidanze problematiche e malformazioni congenite in percentuali eccessive. Il limite della zona rossa e gialla è spesso rispettato – non sono le intere provincie coinvolte –, ma ci possono essere esposizioni non note (vedi i percolati delle discariche che finiscono in falda potabile) che hanno determinato dati sanitari allarmanti anche in altri comuni. Per non parlare della pandemia. I Pfas sono immunosoppressori, riducono la vitamina D e la risposta alle vaccinazioni: ci sono dati consolidati in tal senso per la vaccinazione antiinfluenzale e antirosolia e attendiamo dati in merito alla risposta di laboratorio e clinica alla vaccinazione anti Covid-19. Di sicuro nella zona rossa la mortalità è stata doppia che nel resto del Veneto nella prima ondata del 2020 e maggiore anche nella seconda ondata. Lo stesso è stato verificato in Danimarca e altri Paesi del nord Europa».

Il caso del Veneto sembra aver scoperchiato il vaso di Pandora, facendo emergere situazioni simili altrove. In quanti territori dobbiamo aspettarci che vengano fuori casi come questo?
«Il disastro ambientale e sanitario della zona rossa del Veneto, emerso dal 2013, non ha fatto riflettere abbastanza amministratori e decisori. In quasi tutte le discariche italiane percolano Pfas, in particolare in quelle che ricevono fanghi e percolati dalla Miteni e dai distretti produttivi conciari che manipolano Pfas (oltre al Veneto, Toscana, Lombardia ecc).  La Solvay di Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria, tratta i Pfas da più di 10 anni: gestiva i Pfas prodotti dalla Miteni. Da quando è fallita la Miteni nel 2018 ha iniziato, senza alcuna autorizzazione, a produrre Pfas a catena corta (cC6O4 in particolare) e ADV7800 a catena lunga. Nonostante le proteste e il riscontro di pozzi idropotabili contaminati da Pfas nel 2019, unitamente a una sentenza di condanna in Cassazione per l’inquinamento del sito del polo chimico (di cui è responsabile anche la Solvay per gli anni della sua gestione), a Spinetta Marengo la provincia sta autorizzando l’aumento da 40 a 60 tonnellate all’anno di produzione e a un cambio di modalità produttiva che eguaglierà quella della Miteni. Già il cC6O4 con la manipolazione dei Pfas Miteni era stato trovato nel Po a Castelmassa, ora con la produzione vera e propria si rischia di fare salire oltre soglia tutta l’acqua del bacino del Po. Visto che oggi la filtrazione lascia uscire il 12% dei Pfas, con le tonnellate trattate si rischia di far salire oltre soglia alcuni miliardi di metri cubi di acqua, cioè tutta quella del bacino Padano. L’Istituto Superiore di Sanità in audizione ha riconosciuto che va fatta una valutazione di sistema e di impatto cumulativo. La promessa del filtro a osmosi vibrazionale non è sufficiente a garantire sicurezza, se funzionerà si rivaluterà la questione, a oggi è solo una promessa e non c’è alcuna certezza di sostenibilità economica e ambientale del brevetto Solvay di filtrazione. Da Spinetta le acque inquinate stanno uscendo verso il Bormida, il Tanaro e il Po appunto. I Pfas danno infertilità, stoppiamo la produzione, usiamo i materiali sostitutivi disponibili e guardiamo al futuro».    

@ciro_oliviero

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