L’insegnante del senso critico

L’insegnante del senso critico

Una narrazione diversa da quella mainstream

Se la comunità educante (famiglia e scuola in primis) insegnasse ai ragazzi ad intercettare le proprie inclinazioni, la propria voce, a non rassegnarsi al dolore e ad andare controcorrente, probabilmente vivremmo in una società meno tremante e smargiassa. Non si tratta di spingere i più giovani ad imitare Don Chisciotte e a lottare contro i mulini a vento, ma di guidarli a coltivare l’intelligenza emotiva, l’intuito, il desiderio, per essere meno remissivi e più combattivi. C’è qualcuno oggi che si assume la responsabilità di mostrare ad un alunno o ad un figlio cosa vuole dire non allinearsi e inseguire l’avveramento della propria essenza? Nel caso, sarebbe un bel mondo, fatto di aneliti, di spiriti senza prezzo, di animi destati da una quieta e disastrosa rassegnazione, dall’avidità. La fatica non è esclusa dalla proiezione.

Non si contano le storie di educatori sopra le righe che hanno sollecitato bambini ed adolescenti a guardare oltre il proprio naso e a non aver paura di ciò che provavano o avevano da dire. La trama in alcuni casi è una reiterazione: in un contesto conservatore – che si dice progressista e invece non ammette obiezioni – giunge un disturbatore o una disturbatrice. Molto spesso è un insegnante, rappresentante di una realtà che, volente o nolente, incide sulla personalità di uomini e donne, almeno quanto la famiglia. L’insegnante, dapprima rifiutato dalla classe, persevera e fa breccia nel muro di disattenzione e menefreghismo con il coinvolgimento. Pur con metodo e autorevolezza, induce i ragazzi a mettersi in gioco, senza nascondersi. A questo punto la contaminazione è compiuta e la classe non sarà mai più la stessa. Succede, ad esempio, ne L’attimo fuggente e in Mona Lisa smile.

John Keating e Katherine Watson insegnano nell’ordine letteratura ed arte. Nel bel mezzo degli anni Cinquanta, un periodo storico di contenimento e restrizione, i due giungono in college esclusivi, uno per futuri manager e l’altro per esperte reggenti dell’economia familiare. In entrambe le pellicole i due professori basano il loro metodo di istruzione sul dubbio e sull’interpretazione e rivelano ai ragazzi e alle ragazze in fiore che è possibile mutare prospettiva, come è possibile nutrire delle passioni fino ad indentificarsi con esse. Ciò ha delle implicazioni: non limitarsi al progetto che altri hanno ricamato per noi ed avere il coraggio di andare oltre. Va oltre Neil Perry, uno dei personaggi de L’attimo fuggente, che comprende di colpo le ragioni del suo sentirsi a disagio, fuori luogo, scollato. Ma Neil è un romantico e, non riuscendo a trovare l’energia ed i mezzi per concretizzare le sue idee, riversa la frustrazione su sé stesso. La fine di Neil è una esasperazione filmica: il cambiamento è avvenuto anche negli altri personaggi ed è qualcosa da cui non si torna indietro. Ciascuno di loro si discosta dalla monotonia di una rotta predefinita e apprende il valore della diffidenza. Per Neil, che non conosce il compromesso, questo svelamento è un’esplosione. In Mona Lisa smile, invece, Joan è incoraggiata da Katherine ad iscriversi a Yale e a non rassegnarsi ad essere moglie e madre. Ma Joan, nel frattempo, ha appreso l’arte del dubbio e spiega alla professoressa che le sue scelte non sono un ripiego, proprio come Meg che in Piccole donne spiega a Jo che non esiste una hit parade delle ambizioni, purché si sia conosciuto il discrimine.

La collisione tra le compressioni familiari e le rivoluzioni copernicane messe in atto da John Keating e da Katherine Watson innesca una crisi: per preservare lo stato delle cose gli outsider vengono puniti e quindi allontanati. La comunità degli adulti benpensanti e incartapecoriti mette al bando i docenti infantili e sognatori: il solito schema dell’adulto che bacchetta il bambino.

Non se la passa bene neanche la signorina Stacy, l’insegnante appassionata e vivace che fa capolino nella seconda stagione di Chiamatemi Anna, la serie Netfix tratta dal romanzo Anna dai capelli rossi di Lucy Maud Montgomery. Stacy arriva ad Avonlea sull’isola del principe Edoardo, Canada, e con i suoi metodi di insegnamento travolge una classe di adolescenti provenienti da famiglie di proprietari terrieri e contadini. Le famiglie, scioccate dalle novità, si coalizzano contro la professoressa difficile da inquadrare. Siccome non è prevedibile, la perseguitano. Le rammentano che un insegnante deve applicare le regole, insegnare l’obbedienza e il rispetto della morale. Lei replica: le menti creative sono la forza del progresso ed i sognatori cambiano il mondo. Spiega che il suo obiettivo è solleticare gli studenti e spingerli oltre il seminato. E saranno gli studenti a battersi per lei e a pretendere che non venga mandata via.

In tutti questi casi – e in quelli che seguono – ci sono delle costanti: l’insegnante che prova ad accendere i desideri degli alunni è ben voluto dalla classe, molto meno dai loro genitori e ciò è più vero se il contesto di riferimento è agiato. Prendiamo il mitico maestro Marco Sperelli di Io speriamo che me la cavo, film degli anni Novanta tratto dal libro omonimo. Sperelli viene trasferito per errore alla De Amicis, scuola elementare di Corzano, fantomatico comune dell’hinterland napoletano. La situazione che affronta è scoraggiante: i bambini non frequentano le lezioni perché lavorano, hanno alle spalle storie di miseria e di povertà. Ma Sperelli non si arrende: bussa casa per casa e trascinai bambini in classe, sforzandosi di creare un ponte tra le loro vite sgangherate e la scuola. Insiste affinché sia chiaro a tutti che l’istruzione è un pilastro e senza sarà difficile evolvere. Il maestro settentrionale è consapevole del portato sociale del suo mestiere. Ben presto i ragazzi si affezionano (cede anche il temibile Raffaele) e le famiglie confidano in lui come in un salvatore. A mettere i bastoni tra le ruote al maestro in questo caso è l’istituzione scolastica, ingranaggio inceppato di una società disincantata che teme le pretese e le responsabilità.

Anche la cronaca è zeppa di storie di questo genere. Una si tutte: nel 2014 a Roma due professori del liceo classico Giulio Cesare vengono denunciati per aver fatto leggere in classe il romanzo di Melania Mazzucco Sei come sei. È la storia di una ragazzina che ha due padri: la coppia omosessuale ha fatto ricorso alla riproduzione eterologa. Uno dei due, però, muore e lei viene allontanata a colpi di sentenze dall’altro genitore per essere cresciuta dagli zii e dai nonni, con tutta la disperazione che ne segue. La riflessione su un romanzo così profondo sulla genitorialità e sul concetto di essere figlio e più in generale sull’amore è stata reputata oltraggiosa. Anche in questo caso a scendere in campo per la difesa della moralità sono state le famiglie degli studenti.

Più solo di Neil Perry ma molto, molto, più risoluto è Marcus Messner, protagonista del film Indignazione, tratto dal romanzo omonimo di Philip Roth. Siamo di nuovo negli anni Cinquanta, in New Jersey. Marcus è uno studente brillante ma non è ricco. Grazie ad una borsa di studio, accede ad un college prestigioso (e fintamente progressista) nell’Ohio: frequentarlo è l’unico modo per evitare di arruolarsi per la guerra di Corea. Dapprima è entusiasta ma ci mette poco per accorgersi di essere finito in una scuola che livella l’intraprendenza e la curiosità degli studenti. La sua resistenza lo porta ad uno scontro con il decano del college, che preferirebbe un Marcus meno brillante e più domabile. In questo caso non c’è nessun insegnante da bandire: il conflitto è diretto tra l’istituzione scolastica, promessa sfumata di emancipazione mentale e sociale, e il singolo studente dalla mente viva e non disposto a rinnegare sé stesso.

Intraprende una crociata solitaria anche Matteo Carati ne La meglio gioventù, il capolavoro di Marco Tullio Giordana. Matteo è iscritto a Lettere: la letteratura è il suo regno, discetta di autori e storie con consapevolezza ma è inviso al suo professore che ha un approccio meno vivo e molto più didascalico. Matteo resta deluso e lascia l’Università: questa scelta dolorosa, messa in atto come una ribellione privata contro un’istituzione che non onora le sue promesse, condiziona tutta l’esistenza del ragazzo, che continuerà a cibarsi di storie e a circondarsi di libri. Una volta, durante un seminario che stavo seguendo per lavoro, qualcuno che stimo proiettò una clip de L’attimo fuggente. La questione della possibilità, e della necessità, di cambiare prospettiva era centrale nel suo intervento. Aperto il dibattito, in sala qualcuno pose una domanda che non dimentico: chi ricopre oggi il ruolo del professore? E che effetti può avere su chi ci ha a che fare? Ho riflettuto a lungo su questa domanda. Rispondo adesso: il problema non è tanto chiedersi chi faccia la parte del professore oggi, nel tempo del disincanto. Il problema è che la società, in tutte le sue espressioni e ramificazioni, non riesce ad evitare che ci sia sempre qualcuno a dover fare la parte di Neil Perry, di Marcus Messner e Matteo Carati. A proposito: non è mai solo cinema.

Marina Bisogno

Redazione
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