Coronavirus, la disabilità nella fase 2

Coronavirus, la disabilità nella fase 2

L’intervista a Giampiero Griffo, tra i membri della task force del governo

Per programmare la fase 2 per l’uscita dall’emergenza sanitaria il premier Conte ha nominato una task force di esperti in materia economica e sociale. 17 persone tra le quali l’ex ad di Vodafone Vittorio Colao che la dirige. Nella squadra anche Giampiero Griffo, coordinatore del comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità. A lui abbiamo chiesto il ruolo della disabilità nel futuro post Coronavirus.

Quale sarà l’apporto di Giampiero Griffo nel comitato di esperti in materia economica e sociale nominato dal governo per programmare la fase 2?
«Io sono stato chiamato a rappresentare il mainstreaming della disabilità. Nel governo Conte 2 la delega sulla disabilità è rimasta al premier. C’è in capo alla presidenza del Consiglio un ufficio di inserimento delle tematiche legate alla disabilità all’interno delle tematiche generali. Per coerenza il governo ha voluto che fosse rappresentata anche in questa task force. Le do un dato. Le persone con disabilità a livello mondiale sono il 15 per cento della popolazione. In Europa il 16 per cento. Secondo un indagine Istat del 2015 in Italia ci sono 13 milioni di persone con disabilità. E non è una condizione di salute. Si tratta dell’interazione tra le caratteristiche delle persone e l’ambiente circostante, i comportamenti sociali. Nel tempo le soluzione adottate sono state segreganti. Basti pensare che quasi il 55 per cento di alunni con disabilità in Europa va in classi speciali. Le persone con disabilità sono state invisibilizzate. La società dovrebbe invece garantire l’uguaglianza».

Come devono cambiare secondo lei le politiche per la disabilità in Italia nella fase di uscita dall’emergenza sanitaria?
«Vanno cambiate logiche degli ultimi anni. Il nostro è un welfare di protezione che non protegge. L’elemento di separatezza non produce protezione. Dobbiamo arrivare ad un welfare di inclusione come previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità. In Italia l’applicazione è ancora scarsa. Il welfare va riformato. L’obiettivo dovrebbe essere garantire piena cittadinanza con appropriati sostegni. Sarebbe necessario basarsi sui principi di sostegno per permettere alle persone con disabilità di vivere nelle forme indipendenti come gli altri cittadini. Per farlo dovrebbero essere cambiati i sistemi di valutazione. Nel 1980 l’Oms ha definito il modello di disabilità. La legge 104 in Italia si basa su quei principi. Nel 2001 è stata cambiata la definizione e nel 2016 è stata ratificata la Convenzione. In Italia non c’è una progettazione individualizzata sulla persone. La valutazione non si occupa delle persone, ma identifica una soglia più o meno oggettiva che si rifà ad un modello basato sulla capacità lavorativa. Oggi quel modello è insufficiente».

Molte associazioni che si occupano di persone con disabilità lamentano poca attenzione alla disabilità in questa fase. Soprattutto da parte degli enti territoriali.
«Nelle politiche regionali non c’è consapevolezza dei cambiamenti. In Italia prevale un modello medico di disabilità in cui sono visto malato, incapace, improduttivo. Solo di recente l’Istat ha pubblicato delle statistiche che mettono insieme gli elementi alla base della nostra condizione di persone con disabilità. Quindi qualcuno ha iniziato a riflettere, ma non è una riflessione prevalente. Per quanto concerne gli enti locali ci sono vari ambiti da ripensare. Prendiamo i trasporti. Io mi muove in carrozzella. Si dovrebbe tenere conto che sono un viaggiatore. Noi rivendicavamo mezzi accessibili. Ma per vedere riconosciuto questo diritto è dovuta intervenire nel 2001 l’Unione europea che ha sentenziato che tutti i sistemi del tpl debbano essere accessibili. Ma a quasi venti anni di distanza non ci siamo ancora arrivati. Non c’è un monitoraggio sulle politiche locali da parte dello Stato. L’Italia poi tra i Paesi più arretrati nel rinnovo del parco macchine. In media i mezzi di trasporto pubblico hanno 23 anni di vita. Sarebbe interessante avviare un monitoraggio per capire almeno nelle gradi città a che livello siamo».

Ciro Oliviero

Redazione
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